Coliving vista Teide | Chi sono i famigerati nomadi digitali?

Siamo proprio sicuri che l'unica vita possibile sia quella che ci hanno insegnato da piccoli? E se avessero ragione tutti quei "giovani strani" delle Gen Y e Z che chiedono a gran voce un mondo migliore e un modo migliore per viverlo?
Mic ha 29 anni, dopo aver lavorato tre anni in una tech farm, ha avviato una start up di identità digitale nel suo Paese di origine. Dopo venti mesi, è partito il secondo round di investimenti: due milioni di euro.
La compagna, Marta, di anni ne ha due in meno e, dopo una scuola di alta formazione e poco più di un anno in uno studio di architettura d’esterni, ha preso sei mesi di sabbatico. Oggi, grazie a un boot camp in presenza, ha iniziato il suo nuovo lavoro come UX designer per una società australiana. Chiaramente da remoto.
Marta e Mic hanno imparato a surfare lo scorso anno e stanno ristrutturando un van con il quale andranno alla ricerca delle onde migliori in Europa.
Unico must: una buona connessione.

Fanny da venti anni eroga micro prestiti in Paesi in via di sviluppo in Africa e Asia attraverso una società nord europea. Da maggio 2020 torna in Germania solo per andare a trovare la famiglia e sbrigare qualche attività che non può svolgere a distanza (davvero poche ormai).
Pratica yoga da altrettanto tempo e ha iniziato a tenere le sue classi come docente. Partite da tre persone, sono ormai un evento sull’isola e le partecipazioni sono a numero chiuso. Non può seguire i suoi allievi come si deve se sono più di quindici!
Hike, surf e skate sono le sue passioni (solo dopo lo yoga ovviamente) e sta cercando la parte migliore dell’isola dove metter su la sua scuola.

Sandra si occupa di financial services. E’ una project manager e, da quando l’azienda in cui lavora da dieci anni ha decretato che lo smart working è un diritto inalienabile del lavoratore, cambia casa ogni tre mesi, inseguendo le onde e la neve. Autunno alle Canarie, inverno sulle Alpi o in Asia, primavera in Provenza o sull’Oceano Atlantico portoghese, estate in Inghilterra, Italia o Grecia.
Kevin vorrebbe seguirla ma la società per cui lavora, dopo un anno di full remote working, ha detto che no, non si può. Deve starsene buono buonino e fare le sue call dall’ufficio in Idiot Street.
Kevin ha già trovato un altro lavoro e, nonostante gli piacesse il team e quello che faceva, ha capito che no, non si può.
Con Sandra si incontreranno in primavera e proseguiranno il cammino insieme.

Potrei raccontarne decine, centinaia, di storie simili. I nomi sono di fantasia, ma le loro vite no, sono vere eccome.
Ma vorrei dirvene un’altra di cosa: non ci sono solo loro!

Mi spiego meglio.
Viaggiatrice lo sono sempre stata, con le mie traversate oltreoceano in solitaria per recuperare le forze e far respirare il cervello dopo mesi di lavoro che neanche un cardiochirurgo.
Nomade lo sono da quando nel gennaio 2021 ho lasciato casa, lavoro, città.
Ma solo dopo aver vissuto in un coliving ho capito che queste due cose non fanno di me una disadattata sociale, incapace di trovare il suo posto nel mondo.
Durante quei mesi a Tenerife ho conosciuto giardinieri, artisti, cuochi, psicologi, musicisti. Non solo i famigerati nomadi digitali che lavorano con da remoto computer alla mano.
Ho conosciuto chi ha deciso di vivere viaggiando (in coppia, da solo, in famiglia), chi torna regolarmente negli stessi luoghi dandosi appuntamento con altri nomadi che sono diventati un pò famiglia, chi ha lasciato una vita nel cemento (trascorsa in una corsa affannata verso non sapeva neanche cosa) per trasferirsi di fronte al mare e scalare di marcia.
Molte di queste persone riescono a fare tutto ciò tramutando il vecchio lavoro in qualcosa di più gestibile da remoto, altre hanno dovuto reinventarsi e costruire nuove competenze, altre ancora stanno ancora cercando il modo a loro più congeniale per attraversare questa terra come fosse la loro di vita, e non quella di qualcun altro.
Le persone in situazioni simili aumentano giorno dopo giorno e cercare di incanalarle in cluster comportamentali precostituiti è fallimentare.
Non esiste un numero finito di tipi di lavoro di lavoro, a cui corrisponde un luogo (preferibilmente monocromatico e nuvoloso) e un numero di ore prestabilito (di norma tre volte superiore a quanto umanamente accettabile).
Continuare su questa strada porterà solo a una riduzione progressiva dei cluster stessi.

Un esempio?
C’è un bravo ingegnere, a cui piace fare l’ingegnere.
E’ anche appassionato di giardinaggio e ha una figlia con cui cura l’orto tutte le mattine. Ne hanno messo su uno durante il lockdown, nella vecchia casa in campagna dei genitori.
L’azienda gli chiede di scegliere tra vivere tutto ciò e tornare a fare il suo lavoro come faceva prima di una pandemia mondiale: dodici ore al giorno, in ufficio, in città.
Un tempo avrebbe pensato di non avere scelta, avrebbe fatto i bagagli, lasciato marcire l’orto e comprato un nuovo cellulare alla figlia perché organizzasse un bell’orto virtuale.
Oggi, un ingegnere su cento in questa stessa situazione, impiegherà il proprio tempo per trovare un modo diverso di pagare le bollette. Risultato? Un bravo ingegnere in meno per l’azienda in questione e uomo in più con meno fiducia verso il mondo.
Cosa succederà quando non sarà più solo uno su cento, ma gli ingegneri che molleranno saranno dozzine?

Il digitale ha posto le basi perché alcune cose accadessero, la pandemia ha dimostrato che una vita di valore merita di esistere per tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro e dalla capacità economica di ognuno.
Ora, sta a tutti noi capire se vogliamo continuare a sentirci dei disadattati in vite non nostre o arrenderci all’evidenza e cercare di capire cosa realmente fa al caso nostro.
Le aziende, le città, le scuole, possono decidere, da canto loro, che ruolo avere.
Se restare indietro, e guardare quei pochi folli che diventano folla, mentre salutano con un sorriso beffardo che neanche la regina Elisabetta (pace all’anima sua avrebbe aggiunto mia nonna), o magari reinventarsi anche loro.

Io intanto vi aspetto sull’isola. La mia seconda, terza casa.
Un luogo del cuore dove trascorro più di qualche mese l’anno…senza sentirmi disadattata.
Ho qualche anno in più della mia famiglia di adozione? Non c’è che dire, sì.
Ma sono certa che giorno dopo giorno la famiglia si può ampliare e, vi assicuro, non è l’età ad avvicinare le persone ma il modo in cui vedono (e vivono) la vita.

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