Connecting, is the keyword!
Eravamo in una di quelle posizioni durante le quali il/la mastro/a se ne esce con un laconico “may be, you want…” e via con una contorsione assurda, di quelle che a confronto il maestro Miyagi che prende le mosche con le bacchette sembra un pivello, e tu (con l’ultima riserva di fiato che hai in gola) vorresti solo dire “NO, I DON?T!” con lo speranzoso retro pensiero “ma quando arriva shavasana?” (per chi non pratichi, trattasi della posizione finale, quella in cui ti rilassi, sdraiata, gambe e braccia distese, nessun muscolo del viso in tensione, e ti godi gli effetti benefici dell’esserti presa cura di te).
Ha (e hai) scoperto l’acqua calda, penserete. Perché è vero, ad alcuni tipi di connessione siamo ormai abituati (almeno a parole, nei fatti è tutt’altra cosa e, come in qualsiasi attività, è la pratica quotidiana e il crederci davvero che fanno la differenza).
E, a uno sguardo superficiale, avete ragione.
Senza neanche doverci pensare troppo su, infatti, se guardo al mio vecchio lavoro e a quello nuovo, mi sovvengono due semplici domande in materia:
Non deve forse un buon leader aiutare i membri del proprio team a connettersi?
Non deve forse un buon consulente aiutare le persone delle varie arie di business o aziende partner a connettersi?
Tutto vero. Quindi? Perché la meno così tanto su una cosa a cui siamo tutti abituati?
Perché la domanda che, insieme alle mosche del maestro Miyagi, continua a ronzarmi nella testa dalle sei di stamani è: quante volte ci connettiamo con noi stessi? Connettiamo davvero, intendo.
Quante volte allineiamo respiro e azione?
Quante ascoltiamo cosa ci dice il corpo in determinate situazioni? La pancia, ad esempio, è bravissima a intercettare le situazioni di fastidio. Perché non la ascoltiamo più spesso?
Intendiamoci, non funziona solo per le situazioni spiacevoli.
Nello yoga, quando connettiamo respiro e movimenti, il nostro corpo arriva a strabiliarci con ciò che realmente può fare. Man mano che queste due parti si allineano, ogni posa risulta più semplice e, in quella semplicità, più bella.
Perché, allora, non provare a fidarci del nostro respiro e connetterlo alle azioni anche al di fuori della pratica? Potremmo rimanere stupiti da quello che accade.
Anche io credevo di farlo, nella mia precedente vita. Poi, ho capito che non era così.
Perché quella di cui parlo in queste righe, quella di cui parlava l’insegnante stamattina, non è una connessione superficiale. Bensì qualcosa di più profondo, che parte dall’ascolto.
Ascolto del nostro respiro, del nostro corpo, e anche degli altri: delle sensazioni che ci provocano ambienti e persone.
Non si tratta di mettere insieme i puntini. Come durante una riunione (connecting the dots, quante volte l’ho sentito dire in azienda; in italiano o inglese, poco importa) in cui si cerca di fare la sintesi degli interventi di tutti, o come nella settimana enigmistica (in cui si cerca solo di visualizzare un’immagine nel modo più veloce possibile).
Si tratta di ascoltare.
Perché insisto?
Perché a furia di connettere senza ascoltare facciamo solo dei bei minestroni, di quelli poco riusciti.
Anzi, per buona grazia del minestrone, nella convinzione che connettere voglia dire solo mettere insieme le cose, ci stiamo nutrendo tutti i giorni di tante belle poke bowl, che tanto vanno di moda, in cui riso, avocado, edamame e salmone restano tutti separati, uniti al massimo da una salsa teriyaki.
E quello che ne perde è il gusto, la riuscita della ricetta, la bellezza.
– dei contenuti; le immagini sembrano non avere nulla a che fare con le parole, ma ho voluto utilizzarle perché sono i panorami (e le persone) che accompagnano, in queste settimane, i miei pensieri. La fai facile, mi direte, con una vista così. Beh, sì, la faccio facile; ma volete forse dirmi che non abbiamo panorami altrettanto belli, nella loro diversità, in Italia? Tutto sta a far capire alle aziende che lavorare circondati dalla bellezza e da contesti che stimolano il pensiero renderebbe migliore il contributo di ognuno. Ecco, questo non è facile in effetti. Ma sono fiduciosa che poco alla volta ci riusciremo a rendere consapevoli dell’inevitabile anche i più vecchi puristi del “tutti in azienda h24”
– dell’italiano; nessun linguista è stato torturato per scrivere queste poche righe. Al momento sono oltre oceano, a sette ore di fuso, e l’insegnante tica (proveniente da CostaRica) fa lezione in inglese.
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