Il potere del gruppo

DI quando ho scoperto che la cosa più difficile a cui rinunciare, cambiando vita, non era la stabilità economica ma il fatto di avere un posto certo nel mondo. Con un ruolo riconoscibile e riconosciuto.

Il 31 gennaio del 2021, consegnata l’auto, visualizzavo nome e cognome sul tornello elettronico per l’ultima volta. Credevo non avrei più varcato quella porta a vetri, e invece.

Negli ultimi tre anni, è accaduto più di una volta. Non sono arrivata a riempire le dita di entrambe le mani certo ma, forse proprio per questo, le ricordo tutte.
In questa nuova dimensione, lungo quei pochi gradini, il mio corpo ha imparato a riconoscere qualcosa di diverso: non ero di corsa, non ero preoccupata, non sentivo il peso del mondo sulle spalle.
“Ovvio”, ho pensato. Sono tornata per incontrare persone che stimo, per parlare di lavoro (si, non ho bannato questa parola dalla mia quotidianità), per salutare amici che sono parte di me (vent’anni sono una vita).
In breve: l’ho scelto.
Ma, mentre il corpo si rilassava, un piccolo fastidio, impercettibile, si faceva strada.
Alla reception, nessun saluto di chi conosce il tuo nome avendoti chiamata per anni annunciando i visitatori del giorno; al tornello, la parola “ospite” campeggia oltre il badge provvisorio sull’ultima barriera tra me e il “mondo di prima”.
Quando prendi decisioni come la mia ciò che ti spaventa più di tutto è la parte economica.
Come pagherò le bollette? E la spesa? La benzina?
Nel mio caso le risposte nell’immediato sono state semplici ma anche semplicistiche: affitto casa, mi muovo a piedi e con i mezzi pubblici, niente più spesa nell’amatissimo (e costosissimo e aperto a qualsiasi ora) bio ma al mercatino di turno a (veri) km0.
Con il passare dei mesi (entusiasmo ai massimi livelli per la libertà finalmente acquisita di vivere dove mi pare e nessuna pretesa di status abitativo residenziale, né tantomeno stanziale), inizia quel brivido di chi non è abituata a vedere il saldo del conto corrente che, invece di salire, scende. Inesorabilmente.
La domanda a quel punto è una sola: e ora?

Non mi dilungo nei dettagli delle soluzioni trovate (un giorno spero di raccontarveli per bene) ma vi stupirebbe sapere quante strade alternative si incontrano quando si esce dagli schemi dentro i quali abbiamo vissuto per tutta la nostra esistenza. (Per i più maliziosi: tranquilli, tutte soluzioni legali).
Dicevo, non mi dilungo perché c’è un’altra questione che, quando prendi decisioni come la mia, tendi a sottovalutare: il cambiamento di status. E non intendo quello economico.

Ma come? Proprio io, che mi presentavo ‘nu jeans e ‘na maglietta in ufficio, parlo di status?
Ebbene sì, proprio io.
Perché lo status, il ruolo, il riconoscimento degli altri, prescindono dallo stile, dalla scatola che ci rappresenta.
Trovarsi a proprio agio in una scatola più informale (fuori dagli schemi secondo alcuni) non vuol dire che il contenuto a cui si ambisce sia diverso da quello di chi ci circonda.
Non cerchiamo forse tutti il brava della maestra e dei genitori?
Non ci aiuta forse la pacca sulla spalla o l’abbraccio degli amici dopo le prime delusioni?
Non ci compiaciamo forse quando ci rendiamo conto di essere l’anima della festa man mano che cresciamo?
Perché dovrebbe essere diverso da adulti?
Vi dirò di più: sapere di essere riconosciuta e riconoscibile “nonostante” si sia percepite un pò sopra le righe riempie ancora di più polmoni animo e cervello. In una parola: inorgoglisce.
Come potrebbe non fare effetto, quindi, varcare una soglia che in vent’anni hai attraversato più di seimila volte e renderti conto che non sei più LA d’Acierno ma un ospite.
Di passaggio, e senza ruolo.
Ve lo dico: fa effetto, sì. E sarebbe sciocco non riconoscerlo.
Fa effetto, e tanto.

A dirla tutta, con il tempo, passato il brivido iniziale, ci si sente anche meglio. O almeno a me è accaduto. Perché oggi so che chi mi sorride, mi dice brava, ride alle mie battute, lo fa perché mi sta guardando, ascoltando, vivendo. Proprio me, e non la figura o il ruolo che ho agito e raggiunto al lavoro.
Tutto questo, però, riesco a dirlo con tanta facilità e sicurezza oggi, ad anni di distanza e con tante (diverse) esperienze alle spalle.

Cosa diversa era in quella seconda metà del 2020, mentre prendevo le mie decisioni chiusa tra le quattro mura di casa.
Quando ho scelto di mollare tutto perché quello stile di vita non mi stava più bene, ho cercato di semplificarmi la (già difficile) scelta: ho mentito a me stessa e nascosto la parte (di quello stesso stile di vita) che mi inorgogliva.
L’ho sminuita, messa da parte, arrivando quasi a vergognarmi del fatto che il riconoscimento “del branco” potesse rendermi orgogliosa.
Non parlandone neanche allo specchio, ho procrastinato di fatto il momento della verità, nascondendo sotto il tappeto qualcosa che rischiava di essere più importante della paura sulle questioni economiche di cui sopra.
Dite che esagero?

Non è forse per il timore di smettere di essere l’anima della festa che fior fior di manager restano attaccati alle loro poltrone ben oltre l’età pensionabile?
E noi tutti giù a dire: ma insomma, goditi il tuo tempo, le tue passioni, i tuoi affetti.
Facile affermarlo da fuori, dico oggi.
La realtà è che dopo anni di branco in branco, di gruppo in gruppo, seguendo gli schemi imparati per diventare l’anima della festa, la loro vera grande passione è, ormai, proprio il lavoro.
Ma gli affetti? – potreste dirmi – Non dovrebbero desiderare trascorrere più tempo cono loro?
Dipende, rispondo dopo qualche anno nel mondo di fuori.
Provo a spiegarmi: per quanto bene possano volerci, gli affetti di ognuno che ognuno di noi ha sanno essere impietosi nel loro realismo. Qui fuori, nella vita reale, quegli affetti non ci riconoscono un ruolo diverso da quello di sorella, amica, madre, figlia, moglie, amante.

Giusto – direte voi. Cosa c’entra? – forse aggiungerete.
C’entra che per loro, per le persone fuori dagli uffici dove trascorriamo la maggior parte delle nostre giornate, non saremo mai (e per fortuna aggiungo) capi o leader, ma semplicemente individui. Puri e semplici individui senza le etichette acquisite all’interno della working side che abbiamo costruito. Con tutto quel che ne consegue in ritorno di autostima.
Potrebbe accadere, poi, che quei manager di cui sopra (e tutti noi si badi bene) non abbiano argomenti interessanti di conversazione a parte il lavoro. O comunque mai tanto interessanti quanto l’argomento principe su cui sono preparatissimi: il lavoro. O almeno non tanto da spiccare come spiccano dentro quegli uffici.
E così, nel timore (consapevole o no) di non essere riconosciuti abbastanza e con la certezza di annoiarsi in ruoli agiti troppo poco nel corso della loro vita, quegli stessi manager continuano a indossare, quanto più a lungo vien loro concesso, una sola maschera: quella del capo e del collega.
Rinunciando di fatto a godere delle mille sfaccettature dei mille personaggi che una sorella, un’amica, una madre, una figlia, una moglie, un’amante sanno agire.

E allora? Tutto questo blaterare per sottintendere che sono contenta della scelta che ho fatto? Non potevo risparmiare fiato, tempo e tasti? Forse.
Ma la realtà è che mi premeva condividere con voi che, dopo anni, continuo a imparare cose nuove sul mondo del lavoro così come lo conosciamo e come anche io ho contribuito a tenere in piedi nel mio piccolo.
Alcuni insegnamenti mi sono arrivati subito e tendevo, sbagliando, a darli quasi per scontati (vedi la possibilità di vivere con meno quando trascorriamo le nostre giornate fuori dal loop della produttività a ogni costo), ma altre verità, quelle da cui credevo di fuggire, si erano radicate così profondamente in me che ho impiegato del tempo per vederle con chiarezza, e liberarmene.
Ho imparato così che:
– non è facile uscire dal branco e dalle sue regole (qualsiasi sia il posto che occupiamo all’interno di esso)
– lo è ancora meno che procacciarsi il cibo
– non è sempre tutto oro quello che luccica (il fatto che lo sia per molti non implica lo diventi per tutti)
– …a furia di seguire quell’effimero luccichio rischiamo di rovinarcela davvero, la vita. 

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