Scelte (ir)razionali e costi annessi

Si possono calcolare i costi annessi alle decisioni che prendiamo? Quando una scelta può definirsi razionale? Di quando ho scoperto che la vita è un altalena tra costo opportunità e costo irrecuperabile.

Vi siete mai domandati cosa ci spinge a scegliere una strada piuttosto che un’altra?
Quando ho iniziato a percepire come plausibile un cambio di vita mi sono arrovellata tutte le notti su quale fosse la strada giusta da intraprendere. Ero alla ricerca forsennata di alleati che mi aiutassero a razionalizzare una scelta che razionale non era visto che andava contro tutti i principi sui quali avevo costruito la mia vita fino a quel momento (riconoscimento, crescita professionale, stabilità economica…) e ai quali associavo (erroneamente) il valore ultimo a cui tendere: la felicità (o forse la serenità). 

Mi ci sono arrovellata talmente tanto che cerca che ti ri-cerca (da nerd quattrocchi soldatino della generazione X quale sono) mi sono imbattuta in due concetti che potevano aiutarmi a razionalizzare la domanda: costo opportunità e costo irrecuperabile.
Sul primo ero preparatissima, mi aveva aiutata a razionalizzare decisioni importanti e, perché no, anche meno rilevanti come ordinare una pizza (mangiare una margherita mi esponeva irrimediabilmente alla rinuncia della bianca con funghi, era un fatto!).
Provo a spiegarmi meglio con qualche esempio.
Ho cento euro da spendere durante i saldi, se compro quella salopette dovrò rinunciare al maglione che ho guardato tutto l’inverno in vetrina.
Oppure
Mi hanno offerto un nuovo lavoro, la paga è migliore ma l’azienda è molto più lontana da casa. I bimbi a scuola chi va a prenderli il pomeriggio? Servirà prolungare l’orario della babysitter (ok non ho figli, lo sapete quasi tutti, ma l’esempio mi sembra calzante).
Il maglione o il lavoro lontano da casa sono il nostro costo opportunità: il valore (economico e non) a cui rinunciamo quando effettuiamo una scelta.

Per quanto il concetto di costo opportunità mi fosse chiaro non faceva al caso mio, non mi aiutava a capire che strada intraprendere. Erano troppo diverse le opzioni che mi si presentavano: la certezza di un lavoro come dipendente di una grande azienda e un salto nel vuoto mollando tutto. Non si trattava di un’opzione migliore a confronto con una peggiore, i valori che mettevo in gioco erano totalmente diversi. 
Somigliava di più a quella storia del non mischiare pere con mele negli esercizi di matematica alle elementari. 
Dovevo approfondire il significato dell’altro tipo di costo, quello irrecuperabile

Utilizzato anche questo in psicologia e in economia, rappresenta la difficoltà che noi esseri umani abbiamo a rinunciare a qualcosa per cui abbiamo già conseguito un costo…interessante, ma detto in soldoni?
Torniamo agli esempi pratici.
Ho comprato due biglietti per il teatro, li ho pagati cento euro. La stessa sera una cara amica festeggia il compleanno e non ci vediamo da tempo. Roma è grande si sa, va sempre a finire nello stesso modo: si dice ci vediamo presto…ma non ci si riesce mai. 
Voglio davvero vederla, chi se ne frega del teatro. Sì ok, ma ho speso cento euro! Non me li hanno mica regalati i biglietti. 
Se decido di assecondate i miei desideri – quelli veri, non quelli a cui è facilmente associabile un valore economico – avrò un costo irrecuperabile: i cento euro. Ok, allora vado a teatro.
E il costo irrecuperabile di non vedere la mia amica? Di non festeggiarla? Quello non merita di essere quantificato?

Quante volte la possibilità di associare un valore economico a qualcosa ci porta a fare scelte che non ci piacciono? 
Quante volte perseveriamo in una situazione in cui non stiamo (più) bene perché abbiamo già sostenuto dei costi?
Cazzo, questo era il tipo di costo che faceva al caso mio.
Quattro anni di università, un master, dieci anni per arrivare alla dirigenza, altri dieci per costruire una modalità di lavoro e un team in cui credevo e con cui mi sentivo a mio agio: avevo un costo irrecuperabile davvero alto!

È a quel punto che mi sono venute in ausilio l’analisi e il cammino di Santiago.
Grazie a quelle due bolle fuori dal tempo ho capito che c’era qualcos’altro da mettere sull’altro piatto della bilancia rispetto alla gratificazione economica e di ruolo: il mio tempo.
Mi sono chiesta: se non fosse un problema di quanto ho da perdere lasciando, ma di quanto sto perdendo non cambiando strada? 
Troppo poco spesso associamo un costo a ciò a cui rinunciamo, presi come siamo dall’ottimizzare e trarre valore da tutto quello per cui abbiamo speso tempo e danaro. È così che ci ritroviamo a insistere in relazioni, professioni e stili di vita che non ci piacciono, non più almeno. Perché non possiamo mica cambiare rotta dopo anni di cose vissute insieme, di studio ed esami all’università, di apprendistati e stage e sacrifici di ogni sorta. 
Abbiamo investito troppo tempo per arrivare dove siamo, sarebbe uno spreco! 

E il tempo che ancora ci resta e che non tornerà più indietro? Quello non è uno spreco? 

Vi lascio così, con una domanda per la quale non c’è una risposta giusta e una sbagliata. Come sempre. 
C’è solo la volontà di voler dare priorità a noi, al nostro benessere. Che poi, con il tempo, diventerà anche il benessere di chi ci circonda. 
Il tempo, sempre lui.
L’attore protagonista delle nostre vite, troppo stesso tenuto in disparte e in secondo piano come fosse una delle tante comparse.

(in foto: passeggiando tra i canali di Venezia | La città all’apparenza più irrazionale ma in realtà più magica che conosca)

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