Ecuador | Panamericana in bus e autostop
La Panamericana. Chiunque dovrebbe percorrerla almeno una volta nella vita. Nei mesi di lockdown non ho potuto fare a meno di pensarci. Di chiedermi quando avrei potuto tornarci per completare il mio percorso a tappe che ad anni alterni – un pò di Asia qui, un pò di America lì – continua a portarmi su quella rotta.
Argentina, Cile, Perù, Ecuador, Colombia, Panama, Nicaragua: gli stati che ho attraversato lungo la carretera espectacular.
Chicken bus, bus americanizzati, carri merce, taxi, motociclette: i mezzi utilizzati.
Alba, tramonto, sole pieno, notte fonda: le mille varianti del giorno che mi hanno accompagnata.
Ma soprattutto Maria, Oscar, Ernesto, e altre decine: le persone incontrate. Donne, uomini, bambini. Ognuno con la sua storia da condividere e un sorriso da regalare.
E ora? Che si fa? Mi fermo? Non se ne parla.
Un passante (non è raro che i passanti comprendano prima di te, viaggiatrice solitaria, che hai bisogno della tua dose di aiuto magico) mi butta lì, quasi per caso, che un chilometro più su c’è la Panamericana. Da lì dovrebbero passare i bus che collegano Quito con il sud. Uno che passa da Cuenca (la mia destinazione finale) c’è di sicuro, ma non sanno quando. Guarda caso il passante è amico di un tipo in che, per un dollaro, mi carica su un 4×4 e mi molla sulla Panamericana.
13.50, sole, due zaini, una bottiglia di acqua e tanta pazienza, inizio ad aspettare.
Alla spicciolata, dopo i primi trenta minuti (in cui un po’ di sconforto essendo sola inizia ad esserci), arrivano a farmi compagnia una famiglia (zia con due nipoti che hanno visitato la Nariz del Diablo), una ragazza, una coppia da “tutto il mondo è paese” (lui over sessanta in giacca da moto con 30°, lei under trenta in jeans super attillati).
Dopo tre tentativi andati male, h. 14.55 finalmente arriva il nostro bus. Prossima tappa: centosettanta chilometri; durata prevista: quattro ore.
Motore acceso, autista con il piede sull’acceleratore come il pullman potesse spegnersi da un momento all’altro, saliamo al volo. Dentro è una casba: almeno otto viaggiatori in piedi, una donna in prima fila che tenta di placare le urla del bimbo che ha in grembo allattando, diverse buste in carta di riso (le valige di qualche passeggero che come noi non è riuscito a depositare i propri averi nel vano portabagagli) a bloccare il passaggio, qualche venditore ambulante di papas e bibite gasate.
Il primo incontro è con Rosa – sessantenne con tre figli di una comunità quechua (finalmente so che vuol dire quello strano nome che porto scritto qua e la) vicino Cuenca – traduciamo in italiano, castigliano, inglese, quechua unificato e del suo villaggio, le frasi più ovvie o improbabili. Ridendo dei giochi di parole che si creano tra le varie lingue, ascoltando di tradizioni e modi di vestire, di quando una donna può indossare il cappello o la gonna a balze. Che poi è sempre lo stesso: te devi da sposa’!
Alla fermata in cui scende Rosa sale un ragazzo che, senza perdersi in chiacchiere e senza cercare un posto a sedere (ora iniziano a esserci), consegna a tutti i viaggiatori una banconota e un pò di cioccolata perché:
– comprassimo la cioccolata a un dollaro;
– non avessimo dubbi, grazie a quelle monete, sulle sue origini.
E’ un ex studente di medicina fuggito dal Venezuela, ci racconta. Quelle sono le sue uniche ricchezze e ce le porge con fiducia e sin compromiso (senza impegno), dandoci tempo di decidere fino alla fermata successiva (all’uscita della cittadina che stiamo attraversando) se abbiamo voglia di aiutarlo o no.
Ma Carmelita non è interessata a quello, è solo il solito vecchio modo di attaccare bottone con la prima cosa futile (che in realtà tanto futile non è!) che ti si presenta sotto gli occhi.
– Da dove vieni?
– Che lingua si parla lì?
– Quante ore di volo?
– Perché viaggi sola?
– Sei venuta a trovare la tua famiglia?
Non sembra stupirla più di tanto che sia sola, a quattordici ore di volo da casa e giri in bus x il suo Paese.
Le cose cambiano quando arriviamo alla fatidica domanda sui figli, lì non può trattenersi:
– Eres guapa, no es posible. Escùchame!
Avvicinando la testa alla mia, sottovoce per non farsi sentire dagli altri nel bus (sono pur sempre affari riservati questi!) e tenendomi il braccio, inizia: allora, prendi dell’acqua, la metti sul fuoco, aggiungi quella tal foglia, poi un pizzico di quella tal polvere, mescoli, fai impacchi, aspetti il giorno x del mese, ti passi la benda bagnata sulla parte…
E così, partendo dai rimedi che la dottora della sua comunità le ha dato per una figlia che non poteva restare incinta, arriviamo a quelli per il mal di testa, per le ginocchia, per lo stomaco. Tutte in effetti parti del corpo che negli anni mi si sono ribellate in qualche modo e che lei non so come ha individuato. Avrei voluto conoscere la metà delle erbe che citava e poterne ricordare anche solo un terzo.
Ma fa nulla, è stato bellissimo così, e per un po’ ho avuto la sensazione di parlare con nonna che mi teneva per mano.
Poco male, ne approfitto per fare un giretto al mercato settimanale del bestiame.
Un tripudio di colori mi invade immediatamente. Donne con il cappello e la gonna a balze (sono sposate, ora lo so) in cerchio a vendere indumenti (che saranno ormai al loro terzo o quarto giro di vite) o anche solo a chiacchierare nei loro abiti sgargianti delle festa (eh sì, perché il sabato, quando c’è il mercato, è il giorno più importante per chilometri e chilometri).
Vecchie Singer in fila su banchetti di legno con uomini che fanno gli equilibristi su sgabellini sgangherati mentre cuciono qualsiasi abito venga loro consegnato.
Bambini che giocano e puliscono e carezzano i maiali che portano al guinzaglio come fossero cagnolini, in attesa che il prossimo avventore li compri (o più spesso li baratti) e li porti a casa percorrendo chilometri a piedi su strade sterrate di montagna.
Si chiama Flavio. Mi indica l’auto, dice che è diretto su in cima, al lago. Non sono la prima turista di passaggio da quelle parti, è evidente. Trattiamo un pò sul prezzo (non si può non farlo) e decido di seguirlo. Ha uno di quei sorrisi che non gli si può dir di no.
Ha ventidue anni, è di Zumbawa, e proprio lì, in quel mercato, lo scorso anno ha conosciuto Anita. E’ stato subito amore. Sta imparando l’italiano per fare colpo su di lei e scriverle nella sua lingua visto che non fa altro che pensare a quei due giorni trascorsi insieme al lago e ora non può vivere senza di lei.
E così, eccomi lì, su un’auto a quasi quattromila metri di altitudine, circondata da montagne e con in lontananza il più alto vulcano al mondo, a scrivere parole d’amore sulla mia moleskine sperando che raggiungano Anita e le strappino un sorriso che potrà poi donare a sua volta a Flavio.
Grazie Panamericana. I’ll come back!
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