Myanmar | Di quando ho attraversato lo Shan State a piedi

Quaranta chilometri percorsi a piedi, sei villaggi e altrettanti posti di blocco armati attraversati, quattro pasti consumati in abitazioni dove la cucina è un fuoco in terra e l'acqua arriva a cascata da un tubo volante che goccia su una bacinella, una notte trascorsa in una casa di bambù e legno, innumerevoli tè offertimi sotto i diversi patio.
Ancor prima di entrare nello Stato di Shan ho avuto un assaggio (letterale) di cosa aspettarmi.
Prima collina, campi coltivati (tabacco? altro? allora non sapevo), una famiglia trasferitasi in un capanno (di quelli che da noi giusto gli attrezzi) per tutto il mese dedicato al raccolto. Siedono attorno al focolare per la pausa pranzo quando la mia guida (uno studente di inglese, nato e cresciuto in queste terre) e io entriamo nel loro campo visivo e senza pensarci ci invitano a sedere con loro.
Che ci facciamo da quelle parti?
Il fatto che avrei visitato la loro regione percorrendola a piedi (l’unico modo in cui poterlo fare a causa dei coprifuoco e delle mine antiuomo dislocate sulle strade di collegamento tra i diversi villaggi in lotta da loro) li stupisce meno del fatto che in quel preciso istante nel mio Paese sia notte e non giorno.
La conversazione va avanti così, per una mezz’ora almeno, con KhamLu a fare da interprete di tradizioni e costumi oltre che di idioma. Procede lenta e intensa, come il tempo in questi luoghi, ma ben presto la mia guida cambia atteggiamento e mostra inquietudine: E’ ora di andare, bando alle ciance. Farà buio tra tre ore e la strada è lunga e (al tempo non sapevo quanto) pericolosa.
Ci congediamo così, d’improvviso, ma non senza aver assaggiato la mia prima patata dolce cruda. Non avessi mai detto che quello strano tubero, quell’incrocio di mela e terra, mi è piaciuto: non vogliono farmi andar via senza portarne via almeno una. Subito penso di spiegare che ho centellinato anche i calzini perché lo zaino non pesasse più del dovuto. Ma come dirlo a qualcuno che 1. dorme in un capanno durante tutta la stagione del raccolto; 2. qualche minuto prima ti ha fatto provare il fucile che ha costruito con le sue mani.
In silenzio, sorrido, abbasso il capo e, senza necessità di traduzione e con patata al seguito, seguo Kham Lu verso il confine dello stato.

Ma quale confine? Se avrete modo di visitare il Myanmar scoprirete che ne è pieno. Confini tra i sette stati che compongono il Paese ma anche confini tra i villaggi di un singolo stato. E’ questo il caso dello Shan, che non solo è lo stato con più storia dei sette ma anche il più travagliato dal secondo dopoguerra a oggi (con gli eserciti delle diverse etnie in lotta tra loro e contro il governo centrale).
Non è bastato difatti cambiare il nome al Paese (Birmania derivava da Burma, etnia rappresentativa di due terzi della popolazione) per creare una Nazione inclusiva anche per quel terzo di abitanti che continua a vivere ai margini, territoriali e sociali, di un territorio che si trova schiacciato tra Cina, Thailandia, Laos e lo stesso Myanmar.

Eravamo forse al terzo villaggio quando all’uscita del paesino una signora, sull’uscio di quell’ultima casa coperta di foglie di banano, chiama KhamLu e me per offrirci il suo tè.
Avrà avuto cinquant’anni ma le rughe, segnate dal sole e dal vento, dicevano che aveva vissuto diversi decenni in più. Era sola, i figli si erano trasferiti da settimane nelle vallate vicine per lavorare la terra.
Avevamo ancora tanta strada prima del prossimo villaggio ma decidiamo di sedere con lei in quella stanza dove la cucina è un fuoco nella terra e le sedie sono dei cuscini di bambù. Mi chiede da dove vengo, come ci sono arrivata fin lì e che ore sono a casa mia, a quanto pare è un tema chiave. Fa sorridere anche lei il fatto che in Italia sia notte. Approfitto del suo attimo di distrazione per chiedere a KahmLu se posso darle quei pochi kyat che ho nel portafogli. Ma lui: no, la offenderesti. E’ contenta che tu sia qui con lei, che scambiate due chiacchiere e, soprattutto, è orgogliosa di farti provare il tè che ha fatto con le sue mani.
Ok, chiaro, ma non posso restarmene con le mani in mano. Le gambe le fanno male, i piedi nudi sono rovinati e doloranti. Senza chiedere questa volta, apro lo zaino e trovo un paio di calzini da trekking che non ho ancora usato. Glie li porgo e un sorriso le apre sul volto. Li prova, ci si cammina bene. Possiamo proseguire il nostro cammino.
Al crepuscolo raggiungiamo l’ultimo villaggio previsto per la giornata ed entriamo nel negozio del paese: una stanza con gli alimenti in vendita ammassati sulla terra battuta, un bancone in legno, un tavolo in un angolo. Dopo minuti che sembrano ore (non c’è nulla della leggerezza e della curiosità della famiglia intorno al fuoco di qualche ora prima e siamo anni luce dalle chiacchiere con la signora del tè) seduta al tavolo con il proprietario del negozio e quelli che capisco essere il figlio e il genero, KhamLu mi dice che è lì che dormirò: l’unico edificio ad avere una stanza dove farmi stare e una zanzariera.
E le donne? I bambini? E’ un paese, una casa, di soli uomini? La fragilità del “sesso debole” mi assale.
Certo che ci sono ma non ora, non qui: il coprifuoco è iniziato e sono tutti chiusi nelle proprio stanze, al sicuro.
Sono chiaramente fuori posto in quel momento della giornata in cui si parla di conti e di bisonti trovati morti e di persone ancora vive (ma non si sa per quanto, anche se questo KhamLu non lo traduce).
Mi congedo e il padrone di casa mi accompagna attraverso il soggiorno (un tavolo, quattro sedie, una radio) e la cucina con il solito buco in terra circondato da qualche pietra a delimitarne il bordo (l’unica casa finora ad avere una stanza adibita a cucina) fino alle scale, dove lasciamo la terra battuta e con lei le scarpe.

Al piano superiore l’atmosfera cambia. Candele a illuminare la balconata sulla quale si affacciano foto di giovani in toga e tocco convergono verso una grande luce centrale: un altare votivo. Scoprirò solo l’indomani che il capofamiglia trascorre qui le prime ore del mattino, pregando le sue divinità a nome della moglie morta, del figlio e dei nipoti che lo osservano dalle pareti tutt’intorno.
L’uomo, richiamata la mia attenzione con un piccolo colpo di tosse, mi indica la terza e ultima porta e chinando il capo si congeda. All’interno un materasso adagiato su un tappeto sul quale si apre una zanzariera agganciata in un unico punto al soffitto. Apro l’anta di legno (che fa da vetro e scuro al tempo stesso) in cerca di aria: il buio mi assale e avvolge tutto intorno. Sono le venti, in Italia è ora di pranzo, l’ultimo pranzo dell’anno. Tra una manciata di ore, quando scoccherà la mezzanotte, starò dormendo e ringrazio che il telefono non prenda, in un tardo pomeriggio di coprifuoco nel profondo nord del Myanmar.

Il giorno successivo altri incontri, altri tè, altre case, altri momenti irripetibili di chiacchiere e racconti. Ma soprattutto giochi.
Ho giocato a qualsiasi cosa ci venisse in mente, con i bimbi incontrati sul cammino. Non c’era la lingua a far da barriera, non c’era quel po’ di timore o diffidenza che da adulti si impara ad avere per protegger noi stessi e i nostri cari.
Erano ovunque, nascosti a guardarmi di sottecchi mentre, vicino a un catino di acqua che era il bagno di casa, lavavo i denti con uno spazzolino elettrico. Come mi sarà venuto in mente di portare uno spazzolino elettrico? Forse già sapevo che sarebbe diventato un giocattolo intorno al quale costruire storie. Dopo qualche simulazione di orde di insetti, elicotteri (militari neanche a dirlo) e volatili in genere, lo spazzolino ha perso il suo fascino, e allora sono arrivati in aiuto i sempreverdi battimano, campana, nascondino, ma anche le filastrocche sull’alfabeto in inglese o quelle di Natale. Proprio tutto insomma.
Bello no? Peccato che questi bimbi, se la guerra di confine non cessa, saranno i primi ad essere reclutati dagli eserciti ribelli per combattere l’oppressione dell’esercito governativo.
Mentre percorrevo quei 40km, ho attraversato un posto di blocco vicino a un campo base.
Ho visto prati, che fino a qualche anno prima erano pieni di bufali, seccare al sole perché sono state vendute mandrie intere prima di lasciare i villaggi per timore che i propri figli iniziassero a combattere.
Ho visto case vuote in villaggi pieni di vita.
Il coprifuoco dopo il tramonto che non permette a nessuno di passare da un villaggio a un altro dopo le sei del pomeriggio.
Ma nonostante ciò ho visto sorrisi, accoglienza, volontà di andare avanti e curiosità verso ciò che il futuro ci riserva.
In bocca al lupo Shan State, in bocca al lupo Myanmar!
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