Viaggio ai confini del mondo | Patagonia e Terra del Fuoco
“Non ci troverete nulla. Non c’è nulla in Patagonia.”
Per Borges, che menziona questa terra lontana in diverse sue opere, la Patagonia è simbolo di desolazione e isolamento. Un luogo metafisico più che reale.
Neanche Bruce Chatwin ci va giù leggero: “Nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca».
Come mai, allora, questa ossessione (sì, proprio ossessione) diffusa per una terra “morta” ai confini del mondo?
Provo a rispondere prendendo in prestito la sinossi di In Patagonia (ed. Adelphi): Proprio in questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare.
Ma partiamo con ordine.
Qualche giorno fa, al mio rientro a Vicenza, in bella mostra sul tavolino azzurro dinanzi al divano, trovo ad attendermi uno scrigno inaspettato.
Ha i colori dei tempi andati, la ruvidezza al tatto che rimanda a luoghi lontani e inesplorati, la rilegatura e l’impaginato che solo nei manuali destinati ad attraversare generazioni nella stessa libreria.
È Verso Capo Horn, l’ultimo carnet de voyage di Stefano Faravelli, Adelphi.
E già quello sarebbe ampiamente bastato!
Non immaginavo, però, che aprendo lo scrigno mi sarei tele-trasportata in terre e tempi lontani.
Trascorsi ormai dieci anni dal mio peregrinare in Patagonia, avevo sottovaluto la potenza, mistica e concreta al tempo stesso, di quelle terre.
Lasciandomi guidare dallo strano segnalibro (scoprirò solo al termine della lettura che rappresenta l’unghia di un pinguino, la stessa unghia – vera in quel caso – che ha segnato le pagine del taccuino patagone di Faravelli), mi immergo così in un nuovo viaggio, e non lo abbandono per le successive quattro ore.
Prima immagine fra tutte: i timbri sul passaporto di Faravelli che mi ricordano i miei.
Beh, nulla di più banale. I timbri sono gli stessi per tutti.
Non riesco però a staccare lo sguardo: Argentina. Febbraio. 2016
Mi sorge un dubbio: quando sono stata a Ushuaia?
(un viaggio in Patagonia che si rispetti non può, a parer mio, partire da altro luogo se non la ciudad màs austral del mundo)
…avevo 39 anni…ne avrei compiuti 40 di lì a poco…sì, gennaio 2016!
Ma dai! Da non credere. Eravamo lì a distanza di una manciata di giorni.
Nelle prime pagine del suo carnet, l’autore racconta del penitenziario di Ushuaia e lo fa attraverso le storie e i volti di chi lo ha vissuto.
Giusto! (penso).
Anarchici, strangolatori, padri di famiglia e donne accusate di delitti passionali. Mi pare di vederli i graffiti sulle pareti e le celle buie.
Ma…aspetta un attimo…questo dipinto l’ho già visto!
È a quel punto che decido di accendere il Mac, aprire la cartella Travel_World e cercare la sotto cartella Patagonia.
Per mia fortuna sono ossessivamente nerd nel catalogare le foto di viaggio, ed è un attimo individuare i giorni ad Ushuaia: quell’acquerello davanti a me riprende la stessa precisa angolatura della mia foto del penitenziario.
Il faro di Las Eclaireurs (ci sono ben 26 fari nel solo tratto del canale di Beagle);
il campanile dell’Iglesia de la Merced (ritenuta orrenda sia da Faravelli che dalla sottoscritta);
lo scoglio dei cormorani (perché abbiamo ritratto loro e non lo scoglio con i pinguini? Un errore fatto da entrambi, convinti fossero i simpatici uccelli-non uccelli?);
lo skyline della città ripreso dalla nave che mi/ci porta via da lei…
sono solo alcune delle immagini che, come in una partita a Memory, rincorro e rintraccio per ore, tra carnet de voyage – cartella su Mac – allegato al libro che riporta gli appunti dell’artista.
(Nota a margine, Faravelli chiede una sola cosa in cambio: non esser pigri. Avere il desiderio e la pazienza di ripercorrere con lui il suo viaggio vuol dire saltare dal carnet vero e proprio, con gli splendidi acquerelli) all’allegato al testo (che riporta appunti e pensieri dell’autore stesso)
Mi piacerebbe pensare sia così, ma credo più probabile si tratti dell’ennesima dimostrazione della vita pulsante che scorre sotto quella terra brulla, della forza di quel vento che confonde i pensieri, del carattere volitivo di un luogo che va oltre il luogo e ti dice: oggi ti mostro questo. Niente altro!
È difatti lei, la terra alla fin del mundo, a decidere quali parti di sé aprire a chi la attraversa.
E non fa sconti a nessuno. Neanche a Faravelli che, partito a bordo dell’Adriatica con l’obiettivo di doppiare Capo Horn, non riuscirà purtroppo a raggiungerlo e rientrare nel novero dei fortunati a cui il meteo raramente non avverso consente di calpestarne il suolo per una manciata di minuti.
Minuti che (un altro dei miracoli della terra ai confini del mondo) devono sembrare secoli a chi può raccontare di averli vissuti.
Tornato sconfitto nella meta ma non nell’animo, l’artista appunta sulla sua Moleskine le parole che seguono:
“Fu disavventura, piuttosto che avventura. Eppure: questo viaggio resterà iscritto negli annali dei miei viaggi più belli. Quelli che non si richiudono su sé stessi nell’univoco percorso tra partenza e arrivo. Un viaggio che, smentite le sue mete, si è compiuto nel suo più essenziale significato, quello di essere, così scrive Stevenson, un viaggio Non per andare da qualche parte.”
E non si può certo dire che Faravelli abbia viaggiato poco.
Raccontare dell’emozione di andare alla ricerca delle ultime tracce del popolo Yaman (senza lo stesso successo dell’autore di Verso Capo Horn, ma non spoilero oltre e rimando alle ultime pagine del testo Adelphi);
di come da Ushuaia, e dopo aver navigato il canale di Beagle senza mai arrivare a Capo Horn (a bloccarmi dal tentarci, ahimè, furono le condizioni meteo avverse, il costo, i permessi…), ho percorso la Terra del Fuoco in bus e autostop e nave;
delle innumerevoli volte che ho attraversato la frontiera che separa Cile e Argentina (a dimostrazione della miopia dei confini geopolitici che cercano invano di ingabbiare luoghi e persone);
delle giornate in cammino, con il vento contrario a 40 kmh, all’interno del Parco di Torre del Paine e dell’impossibilità di comunicare la mia posizione per tre giorni a qualsivoglia affetto che era in pena per me dall’altra parte del mondo.
Potrei condire il tutto con un pizzico di glamour con il whisky on the rocks, ramponi ai piedi, sul pianoro glaciale del Perito Moreno (dove le rocks erano ovviamente frammenti blu del famoso ghiacciaio) o con quanto basta di adrenalina con le zip-line che attraversano i boschi nei dintorni di Bariloche.
Ma, come ha scritto meglio di me Stefano Faravelli, è impossibile racchiudere un viaggio ai confini del mondo in un racconto canonico di partenze e arrivi, di mete raggiunte o solo desiderate, di aneddoti e tabelle di marcia.
Un viaggio in Patagonia e nella Terra del Fuoco non è un viaggio per andare da qualche parte ma, aggiungo io, è il miglior modo per andare incontro a sé stessi.
Una Moleskine usurata dal tempo che mi ha accompagnata, oltre che in Patagonia, in Nicaragua, Panama, Uruguay, Madagascar, Cambogia, Laos e Islanda.
E nella gallery, a seguire, alcuni scatti del 2016 ai confini del mondo.
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